Mafia in Lombardia, le rivelazioni di Ilda Boccassini

In una recente intervista al Messaggero, Ilda Boccassini, capo della Dda di Milano, ha descritto forme e contenuti della mafia in Lombardia. Il ritratto che ha il magistrato ha disegnato della presenza mafiosa nella Regione più ricca d’Italia è assieme sconfortante e suggestivo.

Sconfortante perché rivela un particolare: la mafia, dove per mafia si intende soprattutto la ‘Ndrangheta, gode di una presenza notevole non solo quantitativamente ma anche qualitativamente. Non c’è differenza tra gli ‘ndranghetisti calabrese e quelli milanesi.

Suggestiva perché, a dispetto di qualsiasi previsione, la mafia calabrese è “emigrata” in Lombardia conservando tutto il suo bagaglio di riti squallidi e indegni. Riti che si conservano intatti da almeno duecento anni. A sentire parlare la Boccassini, sembra che il lato più oscuro del XIX secolo italiano getti la propria ombria nello scenario post-moderno offerto in una Milano non più da bere, ma ormai in preda a un declino dal quale è difficile uscirne.

“Dal 1800 la ‘Ndrangheta è sempre quella” ha dichiarato lapidaria Ilda Boccassini.

Se lo dice lei, possiamo fidarci. Le indagini da lei condotte a partire dal 2012, oltre a produrre 40 richieste di custodia cautelare solo nel mese di novembre, sono andate così in profondità da trasformarsi in un vero e proprio documentario sulla mafia. Dalle intercettazioni è emerso l’insieme di rituali che ancora oggi, pure in Lombardia, “crea” gli affiliati. Oggi come ieri la ‘Ndrangheta obbliga alla fedeltà cieca e assoluta, all’omertà, alla dedizione alla causa mafiosa, anche a costo della morte. Per chi tradisce non c’è alternativa: o si muore o si muore. Tra i particolari più scabrosi spicca il giuramento che gli “adepti” pronunciano quando promettono fedeltà alla cosca. Vengono utilizzati oggetti dal forte richiamo massonico come coltelli, fazzoletti, aghi. Vengono evocati personaggi che, almeno all’apparenza, nulla potrebbero avere a che fare con la criminalità organizzata: Mazzini, Garibaldi, La Marmora. A spiegare il significato di questi riferimenti inusuali è stata la stessa Ilda Boccassini: “Nominare i padri dell’unità d’Italia è un fatto di responsabilizzazione: se commetti un errore o un grave torto non sarai giudicato da altri, ma hai una sola possibilità: la morte. La morte che avviene non per omicidio, ma per suicidio. Sì, dalla mafia si esce solo ingurgitando il veleno.

Il cerimoniale si compone anche di queste parole, che suonano come un sinistro avvertimento: “Dovete essere voi a sapere che avete fatto la trascuranza. Giudicate voi quale strada dovete seguire. Per quanti colpi ha la vostra pistola in canna, ne dovete sempre salvare uno”. Da questo punto di vista, l’alternativa comunque c’è: una pastiglia di cianuro, e le redenzione è fatta. A salire in cattedra, comunque, sono le cosche brianzole. Queste si sono rese responsabili di 17 episodi di intimidazione nei confronti dei di politici locali e oltre 500 estorsioni tra il 2008 e il 2014.

A soffrire delle angherie mafiose, però, sono soprattutto gli imprenditori. Sono in molti a finire nella loro rete, soprattutto quando devono riscuotere dei debiti. Il motivo è semplice. Ha spiegato la stessa Boccassini: “La sfiducia per lo Stato manifestata dagli imprenditori gioca un ruolo determinante. La vittima, invece di rivolgersi allo Stato, si affida al mafioso che è in grado di proteggerlo e di costringere il debitore a pagare. Senza rendersi conto che in tal modo si pone in un meccanismo perverso che lo travolgerà”.

Giuseppe Briganti