Milano adotta un software anti-corruzione, ma Expo lo rifiuta

La corruzione si combatte anche con la tecnologia. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna lo sanno e infatti è stato realizzato un software in grado di bloccare sul nascere i fenomeni corruttivi, o almeno farli uscire allo scoperto. Attorno è stato poi costruito un intero sistema. Si tratta di Whistleblowing, letteralmente “soffiare nel fischietto”, espressione che rende bene il senso di questo strumento. Così come l’arbitro fischia e interrompe l’azione di gioco quando c’è una scorrettezza, l’onesto può utilizzare il sistema-software e “interrompere” l’illecito.

Il meccanismo che sta alla sua base è semplice. Un lavoratore di una impresa, sia essa pubblica o privata, può denunciare in forma riservata – ma non anonima – un episodio di corruzione, peculato, concussione etc di cui è venuto a conoscenza. La denuncia avviene per mezzo di un form da compilare e una sorta di intranet aziendale, collegata ai sistemi informatici delle forze dell’ordine.

Ovviamente, affinché Whistleblowing possa funzionare deve essere accettato dalle aziende, le quali dovranno realizzare l’intranet che farà da ponte tra chi denuncia e le autorità.

Il Comune di Milano sta incoraggiando l’utilizzo del software. Lo sta facendo in prima persona: da qualche mese il sistema è attivo anche nel network di Palazzo Marino. Il sindaco Pisapia ha spinto affinché pure l’Expo adottasse Whistleblowing. A sorpresa è arrivato il no secco di Giuseppe Sala, commissario straordinario di Expo.

Ha motivato il rifiuto con queste parole: “La mia opinione conta quello che conta, ma mi sembra un’asimmetricità che non capisco che uno possa permettersi in maniera anonima di fare una denuncia, mentre dall’altra parte c’è chi ci mette la faccia. Ma tant’è!”

Insomma, il sistema violerebbe i diritti dei corrotti. Angela Parisi, esperta di diritto internazionale e membro di spicco dell’ANAC (agenzia nazionale anti-corruzione), che fa capo a Raffaele Cantone, ha accusato Sala di confondere l’onesto dipendente che denuncia un illecito con la figura del delatore.

Noi dobbiamo introdurre nel nostro ordinamento giuridico la protezione del dipendente, pubblico o privato che sia, che denunci un illecito avvenuto nel proprio ente, e questo sistema lo permette”. La dottoressa ha accusato le aziende – tra cui Expo – che hanno deciso di non adottare il sistema di favorire la corruzione al loro interno. Il concetto chiamato in causa assomiglia molto a quello rappresentato dalla famosa espressione “coda di paglia”.

“È sbagliato pensare che questo sistema diffonda una cultura della delazione; viceversa, senza attivare questa possibilità di segnalazione interna nel caso di illecito la responsabilità potrebbe essere non solo del dipendente che s’è fatto corrompere, ma anche della società che non ha messo in campo una cultura della legalità utile a scoraggiare questo tipo di reati”.

Non c’è nessun motivo onesto per rifiutare Whistleblowing. Anche perché non si tratta di un salto nel buio, anzi. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti è diffuso dai primissimi anni Duemila. Il 72% dei dipendenti lo apprezza ed è ormai visto come uno strumento utile per combattere la corruzione o addirittura prevenirla alla radice (funziona come deterrente). L’unico problema, semmai, riguarda la necessità di garantire adeguata protezione alle “gole profonde”.

Inizialmente, in tutti i paesi in cui il sistema viene adottato, subiscono ritorsioni e minacce di licenziamento. Discorso inverso rispetto a quello pronunciato da Giuseppe Sala, secondo cui Whistleblowing produrrebbe “asimmetrie” a favore di chi denuncia.

Giuseppe Briganti