Mafia capitale: Terzo settore destinato all’estinzione?

Tra i tanti motivi per cui Mafia Capitale ha fatto così tanto scalpore è il coinvolgimento a pieno titoli – in qualità di corrotti – di enti al di sopra di ogni sospetto. Enti che fanno parte di un mondo creduto, almeno fino a questo punto, nemmeno corruttibile: le cooperative. Al centro dell’indagine è proprio la Cooperativa 29 di Salvatore Buzzi.

Le cooperative fanno parte, dal punto di vista ideologico e semantico, del Terzo Settore, che raggruppa tutti gli organismi che provvedono in modo para-statale alla diffusione del welfare, quindi dei diritti. Un settore nevralgico per la società, dal momento che contribuisce – in maniera diretta o indiretta – a prevenire lo scontro sociale.

Le indagini di Mafia Capitale, e tutto il marcio che sta emergendo giorno dopo giorno, rischiano di compromettere l’immagine che il Terzo Settore si è guadagnato in questi anni. Il rischio è forte perché forte è stata la delusione. “Tradimento” è la parola che tutti coloro che guardavano con rispetto e ammirazione queste attività staranno pronunciando in questo periodo.

Fino a che punto le vicende di Carminati e Buzzi hanno intaccato la visione che la cittadinanza ha del Terzo Settore? Quali sono le conseguenze a medio e lungo termine? C’è già qualcuno che parla di morte del Terzo Settore, almeno limitatamente al Lazio. A esprimersi a riguardo, tra gli ultimi in ordine di cronologico ma tra i primi per importanza, spicca il professor Giovanni Moro, docente di Sociologia della politica all’Università di Roma Tre. In un’intervista recente, ha parlato del destino del Terzo Settore dopo le vicende di Mafia Capitale.

Il suo ragionamento è complesso e parte proprio dalla perdita di reputazione che manca dalla delusione. Il Terzo Settore ha deluso, e questo è fisiologico, ma una certo danno è stato causato anche dal fatto che questa delusione è eccessiva. Nel senso che la fiducia della cittadinanza era sì ben riposta, ma fino a un certo punto. “Il punto è questo: per due decenni attorno alla etichetta “non profit” o “terzo settore” (è lo stesso) è stato costruito, grazie al supporto decisivo dei media, un alone di benemerenza a partire da iniziative indiscutibilmente meritorie la cui benemerenza, appunto, è stata proiettata su tutto l’insieme. Chi era “non profit” o di “terzo settore” era buono a prescindere”.

Uno dei problemi delle cooperative, che ha generato l’humus adatto alla proliferazione degli episodi criminali, è la difficoltà nell’effettuare controlli adeguati.

“In generale, in Italia come altrove, è impossibile fare dei controlli simili a quelli che immagina chi pensa a questa soluzione per un magma di 300.000 enti che comprende anche bar, ristoranti, sindacati, Confindustria, cliniche religiose, scuole e università non statali, enti previdenziali come quello dei giornalisti, ecc. Non basterebbe un esercito per questo compito”.

Quindi, cosa fare? L’importante è incentrarsi, anche dal punto di vista dei controlli, su quello che si fa e non solo sulle evidenze numeriche.

“Certo, la trasparenza è importante e l’obbligo della pubblicità dei bilanci potrebbe aiutare, ma non ci si deve illudere che possa risolvere, come ci insegnano casi diversi come quello di Parmalat. Penso che la cosa più importante sia concentrarsi sulle attività che vengono svolte: è quello che concretamente si fa, il modo in cui lo si fa e i risultati che si producono, in quanto legati all’interesse generale, che deve essere usato come metro di giudizio principale. Questo vuol dire rendere i beneficiari di queste attività importanti almeno quanto i donatori preoccupati che i loro soldi vengano spesi bene”.

Giuseppe Briganti